FIGURE RETORICHE

Si è chiusa da poco una mostra importante al Vittoriano (Roma): “Segni di gloria”, che ha raccontato l’Italia nella stampa satirica, dal Risorgimento alla Grande Guerra organizzata dal Centro studi Gabriele Galantara… lo conoscevate? NO? Beh, se non conoscete Galantara sappiate che è stato un MAESTRO tutto scritto in maiuscolo al quale dobbiamo veramente molto noi satirici, andatevi a leggere qualcosa nel web. Dice il presidente del Centro Galantara, Fabio Santilli: “La mostra ha messo in evidenza che il disegnatore satirico si riteneva essenzialmente un giornalista e aveva non solo il dovere di riportare la notizia, ma anche la missione di esprimere un giudizio critico attraverso la corrosiva sintesi di un’intera vicenda in un’unica illustrazione, in sostituzione a un testo di molte pagine. Un compito che necessitava della padronanza del linguaggio costituito da allegorie, metafore, sillogismi, parodie e figure retoriche, tutte modalità comunicative che confluivano nel grande contenitore espressivo della caricatura” (settimanale Emmaus del 23 febbraio 2003).

E allora, come detto nella chiacchierata precedente, oggi analizziamo qualche figura retorica. Ce ne sono molte, ne elenco qualcuna, di quelle che possiamo trovare più facilmente in una vignetta.

Ripetizione

Consiste nel ripetere una stessa immagine, idea, parola, frase, identica o con l’uso di sinonimi… o attraverso tutto il vostro estro. Scopo: richiamare l’attenzione sul concetto che vi interessa, sviluppandolo. Nel caso dell’immagine, si parla di “ritmo” o di “pattern visivo”, cioè un particolare che si ripete fino a determinare, anche solo per estensione, una textura. In pratica si tratta di inserire nell’inquadratura della vignetta (o della fotografia! perché il discorso che sto facendo vale anche per gli amanti della fotografia, ovvio) lo stesso oggetto o altri analoghi dal punto di vista visivo, in diverse dislocazioni, istanti o vicine. Spesso si gioca su “sinonimi visivi”o oggetti che richiamino il particolare.

Luogo comune

È un’affermazione riconosciuta come norma universale, tipo: “Il potere attrae e tenta il cuore dell’ambizioso”. Ha l’aria del deja vu, certo, che si capisce al volo. Può essere stucchevole una persona che sembra stia sostenendo la Torre di Pisa? Può essere troppo facile andare dietro alla moda, immagini comuni, che passano in tv, sui giornali, che sono nell’immaginario collettivo? Certo, ma può servire a chiarire un concetto difficile. Se al lettore di un certo strato socioculturale può dare la puzza la naso, ad un altro lettore meno smaliziato può apparire come cosa originale. Il nudo in copertina è un luogo comune, o una siluette contro il sole, o l’uomo infinitamente piccolo in un ambiente infinitamente grande. Ma può far molto comodo nella comunicazione: consente l’attenzione su un altro tema, può essere volutamente provocatorio.

Enfasi

L’etimologia greca ci dice che significa “rendere visibile”. Pur avendo un valore diverso nella retorica classica, oggi per enfasi si intende esagerazione del tono di voce, del gesto, della dimensione, con lo scopo di aumentare l’espressività del discorso. Diciamo, un modo esagerato di esprimersi, tipo: “parlo di un uomo vero, ma di quelli autentici, eccezionali!” Può servire ad indirizzare il lettore verso il nocciolo della questione.

Iperbole

È un’amplificazione quasi paradossale del pensiero, dell’idea che si vuole comunicare, è più dell’enfasi. Vengono usate parole e/o immagini esagerate che ingrandiscono a dismisura un concetto: “è forte come un toro”, “sono secoli che non ci vediamo”.
È facile deformare un’immagine riprendendo ad esempio un personaggio dal basso per farlo apparire enorme. O disegnando una mano con dieci dita! per indicare il suo potere, la sua capacità prensile.

Antitesi

Consiste nel contrapporre due idee, due concetti, due immagini. Ognuna esalta l’altra, o serve solo per evidenziarne una. Serve a chiarire e rafforzare la comunicazione.
Quando usare l’antitesi? quando si sta cercando un modo di esprimere un’idea che sia efficace, quando il soggetto è “debole”, quando è difficile esprimersi.

Sineddoche

Permette di esprimersi usando una parte al posto del tutto, un genere al posto della specie, il singolare con il plurale (o viceversa)…
Quando inquadriamo con un mirino fotografico una scena… agiamo sempre con una sineddoche, perché facciamo una selezione; così quando mettiamo bene a fuoco un parte. Una radice per indicare l’albero, delle mani per un uomo, una goccia per indicare la pioggia… un seno per indicare una donna.

Metonimia

Viene associata spesso alla sineddoche. Significa esprimere un concetto non con la parola o la frase esatta, ma attraverso dei particolari che abbiano con esso attinenza, una relazione non quantitativa (altrimenti sarebbe una sineddoche). Si può sostituire la causa all’effetto, il contenente al contenuto, un simbolo al posto del fenomeno che rappresenta.
Nel film o nel fumetto, spesso è associata alla suspense: avete mai visto nella prima parte di un film (soprattutto in un thriller, un film drammatico) in un ambiente di caccia l’obiettivo che indugia su un fucile a doppia canna posto sul tavolo? O in cucina su un coltello che la domestica ha appoggiato in modo casuale sul lavandino? È un segnale che ci sarà un assassinio, ci saranno forse altri segnali durante il film, e voi comincerete a stare in ansia e pregustarvi questa ansia: chi lo farà e come? e quando?... Ma succede anche che il regista vi prenda in giro e non succeda quasi nulla o nulla… o era un diversivo: l’assassinio ci sarà eccome (e quindi era sempre una metonimia) ma con l’uso di un sistema diverso.

Metafora

Potevamo non parlare della metafora? È una delle figure retoriche che si usa di più nella narrazione, nelle vignette. Consiste nell’usare una parola, concetto, immagine non nel significato proprio, ma sostituendola in un altro contesto ad una parola (concetto, immagine) con la quale abbia dei rapporti di somiglianza. Non è molto dissimile dalla metonimia per la verità, perché entrambe rappresentano degli “spostamenti di significato”. Ma nella metafora si assiste ad un vero e proprio salto (“Ho un nodo allo stomaco!”). La base, ovviamente, è la similitudine, cosa che rimanda al linguaggio detto “metaforico”. Vi basta il “Violon d’Ingres” di Man Ray? Certo che dal punto di vista etimologico non c’è nessun nesso tra la schiena di una donna e la cassa di un violino (anche se la forma può condurci vicino), però funziona! C’è, insomma, il cosiddetto effetto “di straniamento” che serve a richiamare l’attenzione portando il fruitore visivo proprio su quanto c’è di “strano” nell’immagine.
Conoscete il “teatro dell’assurdo”? Cercate un teatro e il nome dell’autore della pièce, Jonescu, Beckett, Pinter… andateci ;-)
Oppure, quando vedete del fumo uscire da un ciminiera, immaginatevi sovrapposto il volto di un uomo, di un vostro amico... di voi stessi.

Ma non voglio stressarvi. Allora, per esercizio, guardate le mie vignette qui sotto, ma sceglietene anche altre, quelle che volete voi, e cercate in esse alcune delle figure retoriche che vi ho presentato.

AH! Fra le figure retoriche c’è anche… l’ironia. Ma a questa pensateci voi. Io parlo continuamente con i miei interlocutori più famigliari in modo iperbolico, ironico, metonimico, è il mio essere. È ovvio che poi mi scappi di fare delle vignette, oltre che la pipì ;-). L’importante, e non solo quando si fa della satira… è farla dentro!
Ohps… metafora?

RC